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Viviamo nell’era della plastica, o meglio dei corpi plastici. Julia Frank considera la plastica il principale elemento inquinante del corpo umano, che è il nostro tempio, e la plasticità è una proprietà del mondo materiale analizzata nella sua mostra The body is our general medium for having a world, inizialmente pensata nel 2015 per il suo saggio di diploma al Royal College of Art di Londra. Si tratta di opere fatte di diverse resine plastiche dai forti rimandi a oggetti disponibili sul mercato (cibo, giocattoli, prodotti per la bellezza e la pulizia) e di cui è stato dimostrato il potere inquinante per l’ambiente. Tra questi, un’armatura medievale a piastre realizzata con la termoformatura a vuoto e una testiera per cavallo gialla, della misura del viso di un bambino, le cui borchie ricordano le superfici dei blocchi da costruzione LEGO. Anche se danno l’impressione di poterci proteggere da possibili danni o alludono ironicamente alla tradizione architettonica militare della cittadina medievale di Silandro in Alto Adige, dove l’artista è nata, queste opere rappresentano prevalentemente, per dirla con le parole dell’artista, una testimonianza di “sfruttamento, trasporto e metamorfosi”.
Queste nozioni presentano forti legami con il processo della modellatura, pratica che curiosamente riguarda il campo della produzione artistica, ma anche quello della chirurgia estetica, e sono in linea con l’etimologia della parola greca “plastikos”, che definisce qualcosa che può essere modellato e quindi sottoposto a una deformazione permanente.
Sin dagli anni sessanta il retaggio delle teorie fenomenologiche di Maurice Merleau-Ponty ha esercitato grande influenza sulla pratica estetica di scultori contemporanei ossessionati dal concetto di attivazione. I lavori di Frank si inseriscono in questa tradizione, consolidatasi negli anni novanta al culmine della cosiddetta arte installativa o relazionale, dato il nodo inestricabile che lega la scultura minimalista astratta e pubblico, movimento e percezione. Il titolo della mostra è dichiaratamente ispirato al filosofo francese e infatti per Frank questi lavori “tentano di incoraggiare scambi tra i principali spettatori/pubblico e l’artista”. Tuttavia, nella sua pratica, il rapporto di scambio, in cui il corpo lega insieme tutti gli elementi che interagiscono, viene contraddistinto in maniera diversa. A differenza di quei lavori minimalisti che costringono gli spettatori a prestare attenzione alla loro partecipazione a un’opera, abitando così lo spazio per convalidare l’atto della percezione, qui l’artista non richiede alcuna reazione motoria volontaria.
L’approccio di Frank si libera dall’antropocentrismo tipico della scultura tradizionale per concentrarsi invece sull’ambito complesso e trasmutante degli elementi inorganici.
Questo diventa possibile grazie all’utilizzo di materiale e tecnologie industriali, come la scannerizzazione in 3D o la pittura acrilica che simula vita e oggetti in maniere completamente digitali e trasformate. La sua produzione svela la componente inerente alle tecnologie, rivelandone i processi chimici e fisici nascosti. Tuttavia certe volte un approccio di questo tipo viene controbilanciato da un interesse per l’appropriazione di oggetti trovati o situazioni casuali. Nell’installazione Savoir Vivre (2014) a Villa Arson, Nizza, le piastrelle marroni che rivestono la parte esterna dell’istituzione vengono replicate in uno spazio espositivo grazie a delle impronte di lucido da scarpe nero e marrone. Questo metodo viene utilizzato anche per altri lavori con l’impiego di materiali come asfalto e terra, che riguardano la sfera urbana: nella performance video Body Surface Area: London (2014) le loro tracce si imprimono sulla superficie di una tela montata su telaio e trascinata dall’artista da Battersea a Kensington.
La pratica di Frank sottolinea come l’ambiente industriale e quello del corpo siano egualmente importanti. Corpo e mondo sono inseparabilmente modellati l’uno dall’altro, idea che si riflette nella sua presentazione a Museion, la cui sottile mise-en-scène dà vita a un ambiente domestico animato.
Questo formato indica che le radici dell’identità possono essere ritrovate nei circuiti affettivi delle nostre vite quotidiane agganciate alla cultura. Il suo approccio sembra uniformarsi alle teorie dello psicologo e filosofo americano William James che in Principi di psicologia (1901) affermava: “Plasticità significa possesso di una struttura debole abbastanza da cedere ad un influsso, ma forte a sufficienza da non cedere una volta per sempre”. In altre parole, essere composti da una sostanza plastica significa essere suscettibili a influenze esterne, ma l’integrità di un soggetto resiste agli eccessi affettivi e distruttivi dell’esistenza. Fluttuando materialmente, i nostri corpi sono plastica. Ogni percezione, dice Merleau-Ponty, è fisiognomica e quindi plastica. È grazie a questa plasticità che formiamo la nostra identità: cediamo per poter incontrare cose e situazioni, ma la nostra cultura minimizza i pericoli, impedendoci di spingerci troppo verso gli estremi.
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Viviamo nell’era della plastica, o meglio dei corpi plastici. Julia Frank considera la plastica il principale elemento inquinante del corpo umano, che è il nostro tempio, e la plasticità è una proprietà del mondo materiale analizzata nella sua mostra The body is our general medium for having a world, inizialmente pensata nel 2015 per il suo saggio di diploma al Royal College of Art di Londra. Si tratta di opere fatte di diverse resine plastiche dai forti rimandi a oggetti disponibili sul mercato (cibo, giocattoli, prodotti per la bellezza e la pulizia) e di cui è stato dimostrato il potere inquinante per l’ambiente. Tra questi, un’armatura medievale a piastre realizzata con la termoformatura a vuoto e una testiera per cavallo gialla, della misura del viso di un bambino, le cui borchie ricordano le superfici dei blocchi da costruzione LEGO. Anche se danno l’impressione di poterci proteggere da possibili danni o alludono ironicamente alla tradizione architettonica militare della cittadina medievale di Silandro in Alto Adige, dove l’artista è nata, queste opere rappresentano prevalentemente, per dirla con le parole dell’artista, una testimonianza di “sfruttamento, trasporto e metamorfosi”.
Queste nozioni presentano forti legami con il processo della modellatura, pratica che curiosamente riguarda il campo della produzione artistica, ma anche quello della chirurgia estetica, e sono in linea con l’etimologia della parola greca “plastikos”, che definisce qualcosa che può essere modellato e quindi sottoposto a una deformazione permanente.
Sin dagli anni sessanta il retaggio delle teorie fenomenologiche di Maurice Merleau-Ponty ha esercitato grande influenza sulla pratica estetica di scultori contemporanei ossessionati dal concetto di attivazione. I lavori di Frank si inseriscono in questa tradizione, consolidatasi negli anni novanta al culmine della cosiddetta arte installativa o relazionale, dato il nodo inestricabile che lega la scultura minimalista astratta e pubblico, movimento e percezione. Il titolo della mostra è dichiaratamente ispirato al filosofo francese e infatti per Frank questi lavori “tentano di incoraggiare scambi tra i principali spettatori/pubblico e l’artista”. Tuttavia, nella sua pratica, il rapporto di scambio, in cui il corpo lega insieme tutti gli elementi che interagiscono, viene contraddistinto in maniera diversa. A differenza di quei lavori minimalisti che costringono gli spettatori a prestare attenzione alla loro partecipazione a un’opera, abitando così lo spazio per convalidare l’atto della percezione, qui l’artista non richiede alcuna reazione motoria volontaria.
L’approccio di Frank si libera dall’antropocentrismo tipico della scultura tradizionale per concentrarsi invece sull’ambito complesso e trasmutante degli elementi inorganici.
Questo diventa possibile grazie all’utilizzo di materiale e tecnologie industriali, come la scannerizzazione in 3D o la pittura acrilica che simula vita e oggetti in maniere completamente digitali e trasformate. La sua produzione svela la componente inerente alle tecnologie, rivelandone i processi chimici e fisici nascosti. Tuttavia certe volte un approccio di questo tipo viene controbilanciato da un interesse per l’appropriazione di oggetti trovati o situazioni casuali. Nell’installazione Savoir Vivre (2014) a Villa Arson, Nizza, le piastrelle marroni che rivestono la parte esterna dell’istituzione vengono replicate in uno spazio espositivo grazie a delle impronte di lucido da scarpe nero e marrone. Questo metodo viene utilizzato anche per altri lavori con l’impiego di materiali come asfalto e terra, che riguardano la sfera urbana: nella performance video Body Surface Area: London (2014) le loro tracce si imprimono sulla superficie di una tela montata su telaio e trascinata dall’artista da Battersea a Kensington.
La pratica di Frank sottolinea come l’ambiente industriale e quello del corpo siano egualmente importanti. Corpo e mondo sono inseparabilmente modellati l’uno dall’altro, idea che si riflette nella sua presentazione a Museion, la cui sottile mise-en-scène dà vita a un ambiente domestico animato.
Questo formato indica che le radici dell’identità possono essere ritrovate nei circuiti affettivi delle nostre vite quotidiane agganciate alla cultura. Il suo approccio sembra uniformarsi alle teorie dello psicologo e filosofo americano William James che in Principi di psicologia (1901) affermava: “Plasticità significa possesso di una struttura debole abbastanza da cedere ad un influsso, ma forte a sufficienza da non cedere una volta per sempre”. In altre parole, essere composti da una sostanza plastica significa essere suscettibili a influenze esterne, ma l’integrità di un soggetto resiste agli eccessi affettivi e distruttivi dell’esistenza. Fluttuando materialmente, i nostri corpi sono plastica. Ogni percezione, dice Merleau-Ponty, è fisiognomica e quindi plastica. È grazie a questa plasticità che formiamo la nostra identità: cediamo per poter incontrare cose e situazioni, ma la nostra cultura minimizza i pericoli, impedendoci di spingerci troppo verso gli estremi.